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A tu per tu con Rocco Graziano: “Il tuo punto debole può diventare l’arma vincente”.

27/04/2024

Cresciuto tra la Basilicata e la Calabria, tra Nova Siri e Cariati – città paterna, Rocco Graziano comincia a praticare karate a 8 anni e arriva sul tetto del mondo per ben 2 volte. Oggi vive a Milano, è un personal trainer molto gettonato, è brand ambassador Adidas, ha centomila follower sul suo profilo Instagram ed è pronto a sbarcare in Portanuova con il format MindtheGApp. 

PN: Piacere Rocco… Quando, come e da dove è nata questa incredibile forza di carattere e determinazione che ti ha portato così in alto nello sport?

RG: Un punto su tutti è quello fondamentale: la mia altezza, la mia stazza, intendo. Io sono alto circa 1 metro e 50, molto più basso rispetto alla media. Questo ha influito da subito nella mia vita: fin da quando ero un bambino sono stato vittima di pregiudizi a causa della mia statura, a volte in modo del tutto esagerato, nemmeno fosse il peggiore dei mali. Devo ringraziare soprattutto i miei genitori perché da subito hanno cercato di farmi capire quanto il fisico sia solo il contenitore di quello che è davvero una persona, del suo spirito, dell'anima, della forza e della bontà che può avere ognuno di noi. Col senno di poi, la mia bassa statura è stata lo stimolo, la fame, la miccia grazie a cui si è acceso il mio fuoco.

Avevo 8 anni e andavo a letto sempre alle 21.30. Una sera invece mio padre mi fece rimanere sveglio perché passavano su una rete pubblica un film di Bruce Lee. Mi disse che quando lui era giovane, la prima volta che andò al cinema era per un film di Bruce Lee. Voleva che vedessi quel film a tutti i costi perché secondo lui c’erano valori che andavano oltre il combattimento. E aveva ragione. Dal giorno dopo cominciai a stressarlo per cominciare a fare karate: i miei capirono subito che era un modo per esprimere la mia personalità liberamente, a prescindere dall’altezza. 

Io in palestra mi sentivo a mio agio e cominciai ad andarci ogni giorno.

PN: E continui ancora oggi, Rocco, complimenti. Ma la domanda che può dare un minimo di speranza a noi “sportivi della domenica” è… La forza mentale, l’approccio “da campione” – è una dote che si ottiene solo tramite un duro allenamento fisico o può esistere anche in un “comune mortale” che non si pone ambizioni agonistiche a livello sportivo?

RG: La determinazione di ognuno di noi parte da quello che ci fa sentire vivi. Se tu riconosci dove ti senti a tuo agio, dove puoi sentirti libero di esprimerti senza pregiudizi, senza dover per forza dimostrare chi sei, ti metti in una condizione di serenità interiore tale per cui tutto quello che fai, lo fai per te stesso, perché ti fa sentire bene, libero; non lo fai per gli altri. E solo allora sei disposto a investire tutta la tua energia per davvero, a prescindere che sia karate o giardinaggio.

PN: Rocco: vieni da un paesino che ho sentito nominare per la prima volta in vita mia da te, un quarto d’ora fa… Spiegaci come è stato per te l’approccio alla città di Milano e soprattutto dicci che cos’è per te la qualità della vita: in quali caratteristiche la trovi, se la trovi, in città?

RG: Io devo molto a Milano, devo dirle davvero grazie. Arrivo da un paesino del Sud Italia: per andare ad allenarmi nella palestra attrezzata più vicina, i miei genitori mi hanno scorrazzato per anni a 60 chilometri da casa, andata e ritorno. Per me Milano è stata subito come un paradiso, una festa, un mare di opportunità. Andare in giro per locali diversi, allenarsi a pochi passi da casa, conoscere così tante persone diverse…e persone aperte, che non mi hanno mai fatto sentire qualcosa “in meno” a causa della mia altezza: a Milano la mia altezza è diventata un modo per farmi ricordare, è una particolarità, non un difetto. 

PN: Hai mai vissuto un’esperienza di quartiere, di distretto urbano, di contesto cittadino in cui lo sport ha “fatto da modello” per migliorare la vita stessa in quel contesto?

RG: Nel mio caso, venendo da una piccola realtà, lo sport ha rappresentato un aggregatore capace di mettere insieme persone di cultura ed estrazione sociale molto diverse, trattandole allo stesso modo. Lo sport è inclusivo. Oggi, io stesso cerco di creare dei gruppi di persone appassionate della stessa attività che possano dare contributi molto diversi gli uni dagli altri, e proprio per questo fanno la differenza.

PN: A proposito di gruppi di persone appassionate di sport… MindtheGApp. Ci spieghi come è nato questo format?

RG: Questo format è nato dalla volontà di fare qualcosa anche nel periodo della pandemia, quando era davvero difficile lavorare in gruppo. Il nostro format offre a gruppi di persone che vivono le stesse dinamiche quotidiane (sia colleghi di lavoro che inquilini di uno stesso condominio, per esempio) una serie di servizi legati all’attività psico-fisica che vengono offerti direttamente da trainer professionisti selezionati da me e il mio team. Presto tutto questo diventerà un’app in grado di offrire molti corsi diversi e potenzialmente personalizzati a tutte le persone iscritte nella community. 

PN: 3 ragioni per iscriversi a MindtheGApp?

RG: Primo: stare bene fisicamente e mentalmente grazie a un programma personalizzato. Secondo: risparmiare tempo e soldi per corsi di dubbia qualità. Terzo: fare network con persone che vivono le stesse dinamiche quotidiane.  

PN: MindtheGApp è un’attività che chiede di più al fisico o alla mente? 
Ovviamente spiegaci anche il perché…

RG: Senza nemmeno arrivare a MindtheGApp, ti rispondo subito che per me non c’è mai netta separazione tra corpo e mente. Mai, nemmeno quando mi alleno esclusivamente sulla massa muscolare…la mente c’è sempre, non smette mai di comandare.

PN: Quindi…lo sport è un veicolo che può portare a dei mondi molto utili anche nella vita professionale, giusto? Quali sono i benefici di una mentalità “vincente” nella vita di tutti i giorni?

RG: La mentalità che uso nello sport è totalmente ripercorribile anche nella vita professionale e in qualsiasi contesto in cui serve la forza di volontà. Il mio maestro una volta mi disse: 
“Quando finisci una gara non guardare il punteggio, ma chiudi gli occhi e guarda dentro di te. Sei soddisfatto di quello che hai fatto? Sei veramente sicuro e convinto di poter camminare a testa alta perché hai dato tutto quello che potevi? Se la risposta è ‘si’, bene: apri gli occhi perché la gara l’hai vinta a prescindere dal punteggio.”

PN: Qual è la differenza tra saper fare e saper insegnare?

RG: Non tutti i palloni d’oro sono diventati grandi allenatori, esiste un talento anche nel trasferimento della tecnica e della disciplina. Non so quale sia la differenza, ma sicuramente so dirti l’errore più ricorrente e fondamentale: se insegni non puoi metterti al centro, devi tenerti in disparte e far sì che siano gli studenti a cogliere il frutto più prelibato dall’albero. Tu insegni a riconoscerlo e a coglierlo. 

PN: Ci racconti come condurre una vita sana come la tua? È sempre una questione di autodisciplina – nel senso che resta un sacrificio – o è una scelta che poi diventa semplice routine?

RG: Diciamo che io ho studiato questo aspetto molto a fondo e non uso mai la parola “sacrificio”, ma la parola “investimento”. Perché se tutto ciò che faccio lo faccio per un obiettivo in cui credo, non esiste “perdita di tempo” ma solo “tempo ben speso”. Se devo rinunciare a qualcosa, io non mi mentalizzo sulla rinuncia, ma sul traguardo che quell’investimento mi aiuterà a raggiungere. Se hai un obiettivo serio, le rinunce non esistono, esistono solo investimenti. 

PN: Si dice che s’impara di più dalle sconfitte che dai successi…Qual è stato il punto più difficile della tua carriera da sportivo professionista?

RG: Ed è vero! Io, ad esempio, nel 2012, avevo 21 anni e mi sono infortunato pesantemente. Dicevano tutti che non sarei mai potuto tornare a combattere e per me quelle erano ferite che non si cicatrizzavano. Non sapevo cosa fare di me stesso, della mia vita. Non accettavo che un infortunio o che un fattore esterno qualsiasi potesse decidere della mia vita, dopo tutto ciò che avevo fatto per diventare quello che ero. Poi ho incontrato un medico che ha creduto nella mia forza di volontà: una sorta di psicologo, non solo un chirurgo. Si chiama Massimo Berruto. A differenza degli altri non mi ha chiesto “se fossi davvero convinto di voler tornare”, ma semplicemente “quando avrei dovuto combattere la prossima volta”. Mancavano 8 mesi alla Coppa d’Europa e alla fine ce la feci. Mi rialzai. Ed eccomi qui.

PN: Se Rocco Graziano non fosse un campione di karate…sapresti dirci chi sarebbe?

RG: L’infortunio è servito anche a questo: mi ha fatto capire che Rocco Graziano non sarebbe stato eternamente un campione e mi ha illuminato sulla necessità di coltivare un percorso professionale oltre l’attività agonistica: è stato in quel momento che ho cambiato facoltà all’università, sono passato a scienze motorie e ho messo quello che avevo imparato da atleta dentro al mio bagaglio professionale di trainer. 

PN: Rocco, hai mai pensato di venire a vivere in Portanuova?

RG: (Ride). In realtà mi piacerebbe moltissimo: al di là della bellezza architettonica del quartiere, è proprio la ricerca di fare “comunità” che mi piace da matti in questo quartiere. È un network vivente e concreto di persone, opportunità, servizi innovativi, sostenibilità. Magari quando metto un po’ di soldi da parte…